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n° 43 - sabato 23 ottobre 2004
Fra arte e scienza, i dati che non vediamo, di Stefania Garassini


Fra arte e scienza, i dati che non vediamo

Radiazioni cosmiche, particelle subatomiche,  realtà impercettibili che i computer catalogano senza mostrarcele. I database organizzano per noi la conoscenza e la “visione”, sul Web fluttuano nuove costellazioni di senso. A visualizzare l’invisibile ora prova anche l’arte

Crescente incertezza. Non soltanto, socraticamente, perché più conosciamo, più sappiamo di non sapere. Ma anche perché se cent’anni fa ci sembrava di conoscere la realtà, a parte alcuni dettagli, oggi è il progresso scientifico a renderci sempre più cauti: possediamo i dettagli, ma il quadro d’insieme ci sfugge. «Ormai sappiamo che il 97% dell’universo è di natura ignota», dice Roger Malina, astronomo e presidente di Leonardo, prestigiosa organizzazione internazionale che si occupa del rapporto fra scienza, arte e tecnologia.
Intervenuto a fine estate al festival Ars Electronica di Linz, Malina ha evidenziato il paradosso di una scienza che, grazie a tecnologie complesse, oltrepassa i limiti dei sensi umani ma si ritrova sempre più lontana dalla conoscenza del reale. «Ormai – ha spiegato – abbiamo strumenti che ci consentono di rilevare forme impercettibili di energia, come i telescopi per i raggi cosmici. I sensi non sono attrezzati per cogliere questi fenomeni, ma la tecnologia può tradurli in forme adeguate al nostro sistema percettivo».

È in questa traduzione che si gioca il futuro del rapporto fra scienza, arte e tecnologia «Non conosciamo più la realtà, ma i database su di essa», conclude Malina. Accumuliamo cioè dati su dati, che poi dobbiamo interpretare: quei dati non possiamo né “vederli” né “capirli” perché trascendono le nostre capacità naturali e i nostri sensi, e soltanto le macchine possono aiutarci a farlo. Si verifica ciò che lo storico Daniel Boorstin aveva chiamato “inversione epistemologica”, ovvero il passaggio da un tipo di scienza che dispone di poche informazioni ma ne padroneggia il senso complessivo, a una scienza sommersa da un diluvio di dati, ma che non ha più chiaro il contesto capace di fornir loro un significato. Il ruolo delle macchine, in questo secondo caso, è imprescindibile. I dati devono essere resi visibili o percepibili in altra forma per arrivare a esistere per noi, altrimenti restano materia oscura sepolta nella memoria dei supercomputer che li ospitano. Infatti con microscopi sofisticati si arriva a toccare le particelle più infinitesime della materia e persino ad ascoltare il suono delle cellule, come nella performance audiovisiva di Anne Niemetz e Andrew Pelling, The dark side of the cell.

Che forma dare a questi database, come rendere visibile o percepibile l’invisibile? Il problema non interessa soltanto gli astronomi alle prese con la radiazione cosmica di fondo, o i fisici che sezionano le particelle. Ognuno di noi, quando si collega a un sito web, interroga un database e chiede alla macchina di presentargliene una versione comprensibile e soprattutto leggibile per il suo programma di navigazione in rete (browser). Immagini, testi e animazioni che vagano solitari nella rete come relitti nell’oceano si assemblano così in una forma a noi percepibile. Se, come sostiene lo studioso di nuovi media Lev Manovich (autore di Il linguaggio dei nuovi media, Olivares 2002), «il mondo ci appare come una raccolta infinita e destrutturata di immagini, testi e altri dati» e – aggiungiamo noi – il world wide web ne è l’esempio lampante, allora «è perfettamente logico assimilarlo a un database». Proprio il database per il teorico russo sarebbe una «nuova forma simbolica nell’era dei computer» e anche «un nuovo modo di strutturare la nostra esperienza per noi stessi e per il mondo».

Database: ovvero l’archivio elettronico che dispone i dati e dà loro visibilità, manipolabilità, tramite criteri di ordinamento che hanno in comune la caratteristica di essere “umanizzanti”, vale a dire di adeguare il mondo delle informazioni a quello delle nostre capacità di indagine. La mediazione della macchina in questo processo contribuisce in modo significativo al risultato finale. Che non è detto debba essere quello cui siamo abituati. Anzi, dal mondo dell’arte ci vengono aperture di orizzonte utili per uscire dagli schemi a cui siamo abituati e, quindi, per aprire gli occhi sulla realtà che si cela dietro quegli schemi. L’artista Lisa Jevbratt (http://jevbratt.com) per esempio associa agli indirizzi numerici che identificano gli elementi delle pagine web (i numeri IP) tonalità differenti, in modo da creare composizioni multicolori in cui a ogni frammento è collegato un indirizzo sul web. È sufficiente cliccarci sopra per raggiungere la meta prescelta. L’insieme dei contenuti del web risulta così una sorta di quadro astratto che tuttavia, secondo l’artista, restituisce un’immagine fedele della rete, più attendibile – anche se volutamente difficile da navigare – di quelle cui ci affidiamo abitualmente. «I portali e i motori di ricerca coprono soltanto una piccola parte del web», spiega Jevbratt. Il resto rimane invisibile, nascosto negli hard disk delle miriadi di computer connessi. Si tratta delle pagine organizzate come database e in genere di tutti i contenuti che si strutturano come risposta a una nostra specifica richiesta, o, ancora, delle pagine visibili soltanto con una password. È quello che viene ribattezzato Deep web, il web profondo, inaccessibile agli strumenti comuni di navigazione.

Se la Rete nel suo complesso può avere le sembianze di un arazzo astrattista, anche ogni singola pagina può presentarsi in modo molto diverso da come siamo ormai portati a pensarla. In primo luogo può non essere una “pagina” in senso stretto, ovvero l’imitazione stereotipata – in quel mezzo interattivo che è il computer – di un modello mutuato dal più tradizionale mondo della carta stampata.
WebStalker, del gruppo inglese I/ O/D (http://www.backspace.org/iod/), è un browser alternativo che interpreta i documenti html (il formato che consente di muoversi nella rete cliccando sui vari link) come cerchi e i collegamenti come linee. Si crea così una mappa che cambia di continuo e dà conto della struttura ipertestuale e fortemente interconnessa del web, al di là dei ristretti confini di una pagina. Netomat di Maciej Wisniewski (http://www.netomat.net) invece preleva a caso frammenti di testi e immagini dalle pagine e li ricombina in composizioni astratte, prive di ogni riferimento con gli argomenti cui erano associati (di recente l’artista ha presentato una versione commerciale del software, adatta all’aggiornamento dei blog). Anche in questo caso, come per le opere di Jevbratt e di I/O/D, non ci troviamo di fronte a uno strumento per muoversi agevolmente nella Rete, scopo per il quale i tradizionali browser come Explorer o Mozilla sono più che sufficienti. L’obbiettivo di queste sperimentazioni è piuttosto  rendere visibile la mediazione della tecnologia nel “costruire” uno spazio di dati (dataspace, termine introdotto negli anni Sessanta), che sia accessibile agli utenti del web.

I dati, in casi del genere, costituiscono una materia grezza cui l’artista dà una forma, non diversamente dalla creta nelle mani dello scultore. In altri lavori, come quelli firmati da Benjamin Fry, ricercatore al Media Lab del Mit di Boston, l’attenzione è posta proprio sulla qualità estetica del risultato. Così Anemone (http://acg.media.mit.edu/people/fry/anemone/) consente di visualizzare un sito web come un fiore che nasce e si sviluppa: il suo “nutrimento” sono i dati sul traffico all’interno del sito – pagine visitate, numero di visitatori e altro – , tradotti dal software in elementi stilizzati della struttura del fiore. Le stesse informazioni, gli stessi numeri, possono dare origine a liste infinite di indirizzi o a composizioni che simulano la vita biologica sullo schermo di un computer.
È la natura del database: la forma separata dal contenuto. Metafora del nostro tempo. In cui la sostanza ci sfugge costantemente, mentre ci dilettiamo a contemplare le molteplici variazioni di ciò che appare.              

Stefania Garassini
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