Fra arte e scienza, i dati che non vediamo
Radiazioni cosmiche, particelle
subatomiche, realtà impercettibili che i computer catalogano
senza mostrarcele. I database organizzano per noi la conoscenza e la
“visione”, sul Web fluttuano nuove costellazioni di senso. A
visualizzare l’invisibile ora prova anche l’arte
Crescente incertezza. Non soltanto,
socraticamente, perché più conosciamo, più sappiamo di non sapere. Ma
anche perché se cent’anni fa ci sembrava di conoscere la realtà, a
parte alcuni dettagli, oggi è il progresso scientifico a renderci
sempre più cauti: possediamo i dettagli, ma il quadro d’insieme ci
sfugge. «Ormai sappiamo che il 97% dell’universo è di natura ignota»,
dice Roger Malina, astronomo e presidente di Leonardo, prestigiosa
organizzazione internazionale che si occupa del rapporto fra scienza,
arte e tecnologia.
Intervenuto a fine estate al festival Ars Electronica di Linz, Malina
ha evidenziato il paradosso di una scienza che, grazie a tecnologie
complesse, oltrepassa i limiti dei sensi umani ma si ritrova sempre più
lontana dalla conoscenza del reale. «Ormai – ha spiegato – abbiamo
strumenti che ci consentono di rilevare forme impercettibili di
energia, come i telescopi per i raggi cosmici. I sensi non sono
attrezzati per cogliere questi fenomeni, ma la tecnologia può tradurli
in forme adeguate al nostro sistema percettivo».
È in questa traduzione che si gioca il futuro del rapporto fra scienza,
arte e tecnologia «Non conosciamo più la realtà, ma i database su di
essa», conclude Malina. Accumuliamo cioè dati su dati, che poi dobbiamo
interpretare: quei dati non possiamo né “vederli” né “capirli” perché
trascendono le nostre capacità naturali e i nostri sensi, e soltanto le
macchine possono aiutarci a farlo. Si verifica ciò che lo storico
Daniel Boorstin aveva chiamato “inversione epistemologica”, ovvero il
passaggio da un tipo di scienza che dispone di poche informazioni ma ne
padroneggia il senso complessivo, a una scienza sommersa da un diluvio
di dati, ma che non ha più chiaro il contesto capace di fornir loro un
significato. Il ruolo delle macchine, in questo secondo caso, è
imprescindibile. I dati devono essere resi visibili o percepibili in
altra forma per arrivare a esistere per noi, altrimenti restano materia
oscura sepolta nella memoria dei supercomputer che li ospitano. Infatti
con microscopi sofisticati si arriva a toccare le particelle più
infinitesime della materia e persino ad ascoltare il suono delle
cellule, come nella performance audiovisiva di Anne Niemetz e Andrew
Pelling, The dark side of the cell.
Che forma dare a questi database, come rendere visibile o percepibile
l’invisibile? Il problema non interessa soltanto gli astronomi alle
prese con la radiazione cosmica di fondo, o i fisici che sezionano le
particelle. Ognuno di noi, quando si collega a un sito web, interroga
un database e chiede alla macchina di presentargliene una versione
comprensibile e soprattutto leggibile per il suo programma di
navigazione in rete (browser). Immagini, testi e animazioni che vagano
solitari nella rete come relitti nell’oceano si assemblano così in una
forma a noi percepibile. Se, come sostiene lo studioso di nuovi media
Lev Manovich (autore di Il linguaggio dei nuovi media, Olivares 2002),
«il mondo ci appare come una raccolta infinita e destrutturata di
immagini, testi e altri dati» e – aggiungiamo noi – il world wide web
ne è l’esempio lampante, allora «è perfettamente logico assimilarlo a
un database». Proprio il database per il teorico russo sarebbe una
«nuova forma simbolica nell’era dei computer» e anche «un nuovo modo di
strutturare la nostra esperienza per noi stessi e per il mondo».
Database: ovvero l’archivio elettronico che dispone i dati e dà loro
visibilità, manipolabilità, tramite criteri di ordinamento che hanno in
comune la caratteristica di essere “umanizzanti”, vale a dire di
adeguare il mondo delle informazioni a quello delle nostre capacità di
indagine. La mediazione della macchina in questo processo contribuisce
in modo significativo al risultato finale. Che non è detto debba essere
quello cui siamo abituati. Anzi, dal mondo dell’arte ci vengono
aperture di orizzonte utili per uscire dagli schemi a cui siamo
abituati e, quindi, per aprire gli occhi sulla realtà che si cela
dietro quegli schemi. L’artista Lisa Jevbratt (http://jevbratt.com) per
esempio associa agli indirizzi numerici che identificano gli elementi
delle pagine web (i numeri IP) tonalità differenti, in modo da creare
composizioni multicolori in cui a ogni frammento è collegato un
indirizzo sul web. È sufficiente cliccarci sopra per raggiungere la
meta prescelta. L’insieme dei contenuti del web risulta così una sorta
di quadro astratto che tuttavia, secondo l’artista, restituisce
un’immagine fedele della rete, più attendibile – anche se volutamente
difficile da navigare – di quelle cui ci affidiamo abitualmente. «I
portali e i motori di ricerca coprono soltanto una piccola parte del
web», spiega Jevbratt. Il resto rimane invisibile, nascosto negli hard
disk delle miriadi di computer connessi. Si tratta delle pagine
organizzate come database e in genere di tutti i contenuti che si
strutturano come risposta a una nostra specifica richiesta, o, ancora,
delle pagine visibili soltanto con una password. È quello che viene
ribattezzato Deep web, il web profondo, inaccessibile agli strumenti
comuni di navigazione.
Se la Rete nel suo complesso può avere le sembianze di un arazzo
astrattista, anche ogni singola pagina può presentarsi in modo molto
diverso da come siamo ormai portati a pensarla. In primo luogo può non
essere una “pagina” in senso stretto, ovvero l’imitazione stereotipata
– in quel mezzo interattivo che è il computer – di un modello mutuato
dal più tradizionale mondo della carta stampata.
WebStalker, del gruppo inglese I/ O/D (http://www.backspace.org/iod/),
è un browser alternativo che interpreta i documenti html (il formato
che consente di muoversi nella rete cliccando sui vari link) come
cerchi e i collegamenti come linee. Si crea così una mappa che cambia
di continuo e dà conto della struttura ipertestuale e fortemente
interconnessa del web, al di là dei ristretti confini di una pagina.
Netomat di Maciej Wisniewski (http://www.netomat.net) invece preleva a
caso frammenti di testi e immagini dalle pagine e li ricombina in
composizioni astratte, prive di ogni riferimento con gli argomenti cui
erano associati (di recente l’artista ha presentato una versione
commerciale del software, adatta all’aggiornamento dei blog). Anche in
questo caso, come per le opere di Jevbratt e di I/O/D, non ci troviamo
di fronte a uno strumento per muoversi agevolmente nella Rete, scopo
per il quale i tradizionali browser come Explorer o Mozilla sono più
che sufficienti. L’obbiettivo di queste sperimentazioni è
piuttosto rendere visibile la mediazione della tecnologia nel
“costruire” uno spazio di dati (dataspace, termine introdotto negli
anni Sessanta), che sia accessibile agli utenti del web.
I dati, in casi del genere, costituiscono una materia grezza cui
l’artista dà una forma, non diversamente dalla creta nelle mani dello
scultore. In altri lavori, come quelli firmati da Benjamin Fry,
ricercatore al Media Lab del Mit di Boston, l’attenzione è posta
proprio sulla qualità estetica del risultato. Così Anemone
(http://acg.media.mit.edu/people/fry/anemone/) consente di visualizzare
un sito web come un fiore che nasce e si sviluppa: il suo “nutrimento”
sono i dati sul traffico all’interno del sito – pagine visitate, numero
di visitatori e altro – , tradotti dal software in elementi stilizzati
della struttura del fiore. Le stesse informazioni, gli stessi numeri,
possono dare origine a liste infinite di indirizzi o a composizioni che
simulano la vita biologica sullo schermo di un computer.
È la natura del database: la forma separata dal contenuto. Metafora del
nostro tempo. In cui la sostanza ci sfugge costantemente, mentre ci
dilettiamo a contemplare le molteplici variazioni di ciò che
appare.
Stefania Garassini
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